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Attualità | 24 aprile 2020, 13:00

I sindaci-sceriffi: perché?

Da due mesi siamo chiusi in casa, siamo angosciati per la precaria situazione attuale e per quella che verrà. E poi ci sono le "ordinanze" di lor signori

I sindaci-sceriffi: perché?

In due mesi di emergenza sanitaria causata dal Coronavirus Covid-19 – inizialmente classificata dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) come epidemia e poi dall’11 marzo scorso come pandemia – abbiamo subìto una sempre di più stringente riduzione di libertà individuali che, dalla nascita della Repubblica italiana, non avremmo mai immaginato di vivere. 

Abbiamo cominciato a sentire la morsa delle restrizioni con la prima decretazione d’urgenza (D.L. 6/2020) che oltre ad iniziare a limitare alcune libertà inviolabili ha delegato al Presidente del Consiglio e al Governo di adottare "ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all'evolversi della situazione epidemiologica". La nostra Costituzione, all’art. 78, non prevede l’affidamento dei «poteri necessari» alla carica del Presidente del Consiglio (ma soltanto al Governo) neanche in stato di guerra.

A ciò aggiungiamo che l’art. 117 della Costituzione – con la modifica in vigore dal 2001 – prevede che in materia sanitaria lo Stato mantenga il diritto di determinare i principi fondamentali, mentre ha delegato la materia della tutela della salute alla legislazione di ogni singola Regione.

Di fronte a un così grave emergenza è diventato difficile anche riuscire a essere aggiornati tempestivamente sulla continua emissione di atti normativi da parte del Governo, del Presidente del Consiglio e dei Presidenti delle Regioni. Che spesso sono anche scritti male.

L’art. 114 della Cost. stabilisce che la nostra Repubblica sia formata nell’ordine dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato.

Proprio così, il gradino più in alto è affidato ai Comuni che come definisce una norma specifica (art. 3, c. 2 del D. Lgs. 267/2000) è «l’ente locale che rappresenta la propria comunità e ne cura gli interessi».

Il sindaco deve insomma fare la sintesi di tutta la normativa nazionale e regionale e, solo in determinati casi previsti dalla legge, può emettere ordinanze proprie. Deve mettere in pratica la difficile arte del comando i cui ingredienti sono: capacità di analisi, capacità di farsi affiancare da una squadra preparata e capace, autorevolezza, attitudine a gerarchizzare i pericoli, sapere gestire lo stress e soprattutto mettere in pratica il segreto delle migliori nonne: il buonsenso.

In due mesi ci è cambiato tutto, siamo chiusi in casa, abbiamo paura di uscire, siamo angosciati per la precaria situazione attuale e per quella che verrà.

Non a caso il nostro Presidente della Repubblica Mattarella in uno dei recenti discorsi eccezionali alla Nazione ha detto: «Attenzione a non sollevare paure».

Capita però che alcuni sindaci decidano, d’imperio, con una creativa interpretazione di norme, di emettere ordinanze illegittime.

Perché, ad esempio, bisogna imporre ai cittadini di portare con sé le mascherine quando si esce di casa? A oggi nessuna disposizione (né statale né della regione Piemonte) ha stabilito quest’obbligo. In fondo basterebbe leggere la normativa “vigente”.

Il sindaco non può modificare norme di legge (il decreto legge è una legge), né argomentare le ordinanze con riferimenti a leggi sanitarie (art. 32 della legge 833/78) che, per la circostanza, sono state rese inefficaci dall’art. 3, c. 3 del D.L. 19/20 o, peggio, giustificandole con riferimento all’art. 50, c. 5 del D. Lgs. 267/2000, addirittura invadendo la competenza territoriale di comuni limitrofi (vietato dall’art. 50, c. 6 del D.Lgs 267/2000). Inoltre le ordinanze devono avere un limite di validità temporale (devono indicare una data certa di inizio e di fine, non si possono emettere sine die). Ma soprattutto quando si prevedono sanzioni per eventuali violazioni non si possono “punire” i cittadini quantificando la sanzione amministrativa pecuniaria a proprio piacimento, ma soltanto con riferimento all’art. 7 bis, c. 1 bis del D. Lgs. 267/2000.

E se i sindaci “sceriffi” anziché emettere ordinanze che alimentano ancora di più il senso di angoscia (in psicologia l’angoscia equivale a intensa sofferenza che affligge l’animo) avessero chiesto ai propri cittadini di seguire le stesse prescrizioni togliendo il verbo “ordina” e sostituendolo con il verbo “raccomanda” o “invita”, magari anche comunicate con un tono più accomodante, oltre a diffondere ugualmente le nuove regole avrebbero accompagnato i cittadini a essere ancora di più comunità e a essere un po’ meno impauriti.

Un semplice richiamo alla responsabilità individuale insomma, come farebbe un buon padre di famiglia. Perché il sindaco è il “primo tra uguali” (o come dicevano i latini Primus inter pares) e non soltanto in prossimità delle elezioni comunali o perché bisogna aumentare la propria visibilità.


Pierluigi Lamolea

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