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Sport | 24 luglio 2022, 23:50

La “Lettera a Bearzot” di Pastorin

Un giornalista-scrittore generoso e preparato che si confessa ai lettori con la grazia di un cantore olimpico

La “Lettera a Bearzot” di Pastorin

Esistono nella storia della cultura italiana, da quando inizia lo sport moderno (grosso modo centotrenta anni fa), pochissimi giornalisti sportivi con buone conoscenze filosofico-letterarie, mentre sono molti gli scrittori e gli intellettuali, da Mario Soldati a Dino Buzzati, a occuparsi di sport. Tra i primi, a parte lo storico modello di Gianni Brera, oggi va menzionata l’originale figura di Darwin Pastorin, dal curriculum favoloso - redattore del Guerin Sportivo, vicedirettore di Tuttosport e via via direttore di Tele+, Stream Tv, Sky Sport, La7 Sport, Quartarete, che in quasi mezzo secolo di attività professionale, trova pure il tempo di scrivere e pubblicare libri sia di soggetto agonistico sia in un curioso ambito a metà strada fra il memoir, la Storia, la cronaca, in dialetto rapporto tra pubblico e privato, personale e politico. Ne sono testimonianza una ventina di fortunati volumi dal primo Avenida del sol al recente Storia d’Italia ai tempi del pallone.

L’ultima fatica letteraria è una lunga missiva in prima persona in cui, attraverso venti capitoli (ciascuno per diverse annate a saliscendi), Pastorin si rivolge al ‘vecio’, ovvero Enzo Bearzot, l’allenatore che l’11 luglio 1982 conduce la Nazionale italiana di calcio a vincere un Mondiale, su cui un mese prima nessuno scommetterebbe. Coprotagonista dell’impresa è Pablito, il centravanti Paolo Rossi malvisto e bistratto dai media fino a qualche giorno prima, mentre gli ‘altri incantesimi’ del sottotitolo del volume riguardano aspetti privati che spesso s’intrecciano con una vicenda assurta a emblema di una rinascita patriottica.

 

Darwin parte da molto lontano, con l’infanzia trascorsa a Sao Paulo, dove impara a giocare il futebol e a tifare per il Brasile, la cui selecao, fra il 1958 e il 1972, è al top con due Mondiali vinti grazie alle prodezze di Pelé e Garrincha. Il ritorno in Italia a Torino per il giovane è, nel 1968, all’insegna della contestazione e dell’Europeo degli Azzurri, dove spicca l’attaccante Pietro Anastasi, ben presto il suo idolo, assieme a una sempre più vincente Juventus. Il tifo spassionato, la prassi calcistica (sia pur dilettantesca) e alcune buone letture conducono Darwin studente universitario a optare per la carriera nel giornalismo sportivo, che in questo libro viene per così dire rievocata attraverso una sorta di profonda amicizia proprio con Bearzot, al quale riesce, per il Guerin Sportivo (il 19 ottobre 1977), a strappare un’intervista divenuta poi celeberrima, dove il Vecio risponde candidamente a domande sulla poesia, sulla storia antica, sul grande Torino, sulla solitudine, sulla morte e ovviamente sui progetti per la Nazionale.

Da lì in poi fino al trionfo allo stadio di Madrid (Italia-Germania 3-1) la Lettera a Bearzot vive lucidi momenti di esaltante sentimentalismo che trovano il clou paradigmatico non tanto nella finalissima quanto piuttosto nella decisiva Italia-Brasile 3-2 dove ai sudamericani basterebbe un pareggio per andare avanti, ma trovano di fronte un Undici tricolore agguerrito, con Pablito che segna la magica tripletta, diventando di colpo l’idolo dei tifosi di tutto il Pianeta. Pastorin amleticamente diviso tra l’infanzia e la maturità, ossia tra la nostalgia per un Brasile che i nuovi Falcao, Zico, Socrates, riescono a superare in classe e potenza e un’Italia denigrata da quasi tutti dopo il calcio-scommesse, ma che Darwin ancora difende grazie alle convinzioni del Vecio.

La Storia è nota, molto meno quella di un giornalista-scrittore generoso e preparato che si confessa ai lettori con la grazia di un cantore olimpico della remota antichità, pur non dimentico delle tante criticità del mondo attuale (commoventi i capitoli non solo sul 1982, ma anche su 2020, 2021, 2022).

Guido Michelone

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