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Arte e Cultura | 05 settembre 2023, 17:18

RACCONTI E RICORDI

Corso di scrittura alla Biblioteca di Santhià. I lavori di alcuni partecipanti

A febbraio, marzo aprile, nella Biblioteca Civica di Santhià si è svolto un corso di scrittura organizzato dal Comune - e in particolare da Renzo Bellardone, consigliere delegato alla cultura, - e tenuto da Remo Bassini, scrittore e giornalista. Al termine del corso sono stati raccolto alcuni scritti di alcuni partecipanti.

Raccontare

 

Avresti voluto fare la First Lady

- di Beatrice Zanichelli -

Avresti voluto fare la First Lady. Tante attenzioni, migliaia di occhi che ti guardano e tu, con classe, che sfili davanti a loro come se non ci fosse niente di meglio al mondo. Loro, che ti vedono a tuo agio e perfetta, quando in realtà sei lì che nascondi la tua paura di cadere, di dire la cosa sbagliata, di sembrare impacciata. Ma non importa, continui a camminare finché non raggiungi il tuo posto.

Perché è questo che hai scelto di fare, di mettere da parte la paura e mostrare solo la fiducia che hai in te. Se ne hai ancora.

Perché avresti voluto fare la First Lady, sì, ma non lo sei diventata. Certo, hai ancora un po' di tempo: se pensi di essere come quel piccolo pulcino indifeso che non riesce a fare nulla o se, finalmente, riuscirai a vedere la donna che sei diventata, inizi a credere in te e ti riconosci il valore che meriti. Non hai bisogno che un altro ti dica chi sei, tu lo sai già, è dentro di te. Per cui, fai uscire la gran donna che sei e inizia a conquistare i tuoi sogni. Credi in te e guardarti mentre raggiungerai una ad una ogni cosa che desideri.

 

Mi chiamo Beatrice Zanichelli, ho 27 anni.  Ho una laurea in tecnica della riabilitazione psichiatrica. Amo i libri e gli animali più di ogni altra cosa al mondo.

 

 

L'ultimo capitolo

Giallo Stresa 2021

- di Maria Lacchio -

 

Per due ore aveva combattuto con il traffico dell'ora di punta. Uscire dalla città di venerdì pomeriggio è sempre una battaglia a colpi di clackson; così erano già le sette passate quando intravide in lontananza il casello dell'autostrada dei Laghi. Accese la radio, cercò un programma di musica, alzò il volume e lasciò che la musica gli riempisse l'abitacolo e la mente. Era una bellissima serata e lui stava andando alla sua casa al lago per godere della sua atmosfera un po' retrò, un po' magica, sicuramente rilassante. All'altezza del casello di Arona decise di abbandonare l'autostrada e di proseguire sulla statale che costeggia il lago. La variopinta massa di turisti che d'estate invadeva le località lacustri se n'era andata e gli abitanti avevano riconquistato i loro spazi e la loro tranquillità. Guardò l'ora sul display del cruscotto; erano già le otto e aveva appena superato il cartello stradale "Benvenuti a Solcio". Calcolò che ci sarebbe voluta un'altra ora abbondante prima di arrivare a casa. Troppo. Aveva fame; a mezzogiorno aveva trangugiato un tramezzino e un orribile caffè. Mise la freccia e parcheggiò nella piazzetta prospicente il porticciolo del paese. Dietro di lui un'altra auto parcheggiò due posti più in là. Il cellulare che aveva gettato sul sedile del passeggero si risvegliò e iniziò a vibrare. Lo prese, gli concesse un'occhiata e lo ributtò sul sedile, lasciandolo lì a gracchiare mentre scendeva dall'auto. L'aria fresca della sera era satura di profumi; respirò a pieni polmoni, buttò fuori l'aria lentamente e si rilassò. Appoggiato alla ringhiera dalla foggia vagamente liberty, si fermò ad ammirare lo spettacolo del sole che tramontava sull'acqua. A casa, a Milano, non osservava mai i tramonti. Che diamine, era sempre al chiuso. Nel minuscolo porticciolo le barche dondolavano pigre, assecondando il ritmo delle onde che si infrangevano sui sassi. Un paio di barche a vela costeggiavano la riva opposta del lago, la cui acqua cambiava colore mano a mano che il sole tramontava dietro le montagne. Quando il blu intenso virò in grigio argento, tornò all'auto. Recuperò la felpa dal sedile posteriore e prese il cellulare. Non vibrava più, ma sul display lampeggiava insistente la bustina dei messaggi. Quattro sms, tutti uguali: “richiama appena vedi i messaggi'” inviati dal suo agente letterario che lo tampinava da una settimana. "Col cavolo, che ti richiamo!" pensò. L'ultima volta che aveva risposto alla sua chiamata gli aveva rovesciato addosso una tonnellata di improperi. «Quando ti decidi a finire l'ultimo capitolo? L'editore mi sta col fiato sul collo!» aveva ringhiato. Lui aveva assicurato che glielo avrebbe consegnato nel giro di un paio di giorni, giusto il tempo di apportare qualche piccola correzione. Da allora di giorni ne erano passati ben più di due. Nemmeno poteva dirgli che quel capitolo neanche l'aveva iniziato e che l'unica cosa che aveva finito erano i soldi dell'anticipo che la casa editrice gli aveva versato. Sulla fiducia, perché il romanzo che gli aveva pubblicato l'anno precedente aveva 'venduto bene'. Era stato invitato a presentarlo anche al Salone del Libro di Torino, un palcoscenico di tutto rispetto. Il pubblico, soprattutto quello femminile, aveva mostrato di apprezzare la storia e anche la critica era stata generosa. Ma ogni medaglia ha il suo rovescio. L'editore gli aveva richiesto un altro romanzo da fare uscire sotto Natale e lui, sulla scia dell'entusiasmo, aveva firmato il contratto che prevedeva, tra l'altro, una penale a sei zeri se non ne avesse rispettato i termini. E adesso il tempo era scaduto e lui era bloccato a quell'ultimo sciagurato capitolo. Aveva presentato una bozza un mese prima; una vera schifezza, lo riconosceva, ma non poteva farci niente se non riusciva a trovare la quadra per un finale originale; e se il suo agente aveva dato di matto non poteva che giustificarlo. Da allora si era negato al telefono e aveva eliminato tutte le sue mail senza nemmeno aprirle. Attraversò la strada e scese saltellando i tre gradini che separavano il marciapiede dalla carreggiata. Superò un paio di negozietti che vendevano souvenir e la vetrina di un antiquario che esibiva pezzi antichi a prezzi moderni. Bene, avrebbe approfittato di quei giorni di vacanza per mettere a punto un capitolo finale talmente 'esplosivo' che avrebbe fatto balzare sulla poltrona quello stronzo borioso di agente. Sovrappensiero, andò a sbattere contro un orribile troll che indicava l'ingresso di una trattoria. Sulla lavagna che reggeva tra le braccia esageratamente lunghe spiccava la scritta 'Menù del giorno € 10.' Proprio quello che faceva per lui. Entrò. Un paio di ragazzi stavano giocando alle macchinette nel locale semibuio, mentre un cameriere commentava con un cliente la partita di calcio trasmessa alla tv.
«'sera» lo salutò.
«Cosa prende?» gli domandò sbrigativo.
«Il menù del giorno va bene» rispose.
«Si accomodi dove vuole» replicò il cameriere, indicando i tavoli nella sala adiacente per poi tornare a guardare la partita.

Scelse un tavolino accanto alla vetrata da cui poteva vedere un triangolino di lago. Individuò la porta dei bagni e vi si diresse. Il locale, piccolo ma funzionale, era perfettamente pulito e profumava di limone. Lo specchio sopra il lavabo gli restituì l'immagine di un viso stanco, con qualche ruga attorno agli occhi e un'ombra di barba. Erano lontani i tempi in cui era stato il bello del liceo, preda ambita della maggior parte delle ragazze, e anche di un paio di giovani supplenti. Ma si riteneva soddisfatto; per essere alla soglia dei quarant'anni, si era mantenuto in forma e qualche filo bianco tra i capelli ancora folti e brillanti lo rendevano più interessante all'universo femminile.
Tornò in sala, dove qualcuno nel frattempo aveva apparecchiato la tavola e acceso le luci. Si sedette e spense definitivamente il telefonino che aveva ricominciato a gracchiare.
«Da bere cosa le porto?»
Alzò lo sguardo e si trovò di fronte il viso fresco e senza trucco di una ragazza. Era molto graziosa; aveva gli occhi di un azzurro intenso e la bocca rosa, con una piccola cicatrice che le tagliava il labbro superiore, conferendole un'aria sbarazzina. I capelli castani e ricci erano raccolti in una coda di cavallo legata con un semplice elastico.
«Un'acqua minerale naturale» rispose.
Seguì con lo sguardo la figuretta snella fasciata nei jeans attillati che dopo pochi minuti tornò con la bottiglia d'acqua e il vassoio con il menù del giorno: penne al pomodoro, una sottile fetta d'arrosto affogata sotto uno spesso strato di in una salsa viscida e spinaci acquosi, come da copione. Mentre analizzava il contenuto, agganciò lo sguardo della ragazza che gli espresse tutta la sua solidarietà con un lieve sospiro.
«La pasta è buona, ma lasci perdere la carne» gli mormorò all'orecchio mentre posava il cestino del pane. Si allontanò lasciando una scia di profumo di lavanda, dolce, fresco, innocente. Seguì il consiglio della ragazza; divorò la pasta, accompagnandola con un paio di fette di pane, ma lasciò carne e verdura intatte. Pagò il conto e vi aggiunse una generosa mancia. Uscendo, per poco non andò a sbattere contro una giovane donna.
«Scusi» mormorò. Lei gli rivolse un mezzo sorriso ed entrò nel locale. Raggiunta l'auto, si trattenne ancora qualche minuto sul piazzale a fumare una sigaretta. Riprese la statale praticamente deserta.
Alla sua sinistra, sul muraglione che tagliava il crinale della montagna, i lampioni facevano da sentinella ai parchi che circondavano le antiche ville signorili che avevano visto giorni migliori. Rallentò davanti alla sfarzosa facciata liberty del Regina Palace Hotel e pensò che un giorno si sarebbe potuto permettere una notte in una di quelle suite tutta ori e stucchi. Rispettò scrupolosamente i limiti di velocità, ma sul rettilineo tra Feriolo e Gravellona Toce lanciò l'auto oltre i cento all'ora. Abbassò il finestrino e lasciò che l'aria della notte gli scompigliasse i capelli e schiarisse la mente. All'improvviso, i fari di un'auto fendettero il buio. L'auto lo sorpassò. Gli parve di riconoscere nel guidatore la donna che aveva urtato. Per qualche strano motivo gli era rimasta impressa nella testa per un buon tratto. Non avrebbe saputo spiegarne il perché. Si diede dello stupido; la sua era una fissazione! E se anche fosse stata lei? La strada è di tutti. Eppure, lo assalì una strana sensazione, forte, istintiva. "Smettila immediatamente" si impose. "Tieni a freno l'immaginazione". Lasciò alla sua sinistra le insegne luminose del centro commerciale e imboccò la strada per Mergozzo. Davanti a lui troneggiava il Monte Orfano, con le sue cave di granito che brillavano bianche nella notte. Il cartello 'Bracco, frazione di Mergozzo' era seminascosto dalla vegetazione e invisibile di notte; chi non era pratico del luogo avrebbe avuto difficoltà a trovare la stradicciola sterrata che saliva tra i boschi;.ma non lui. Quella strada, lui, avrebbe saputo percorrerla ad occhi chiusi. Fermò l'auto sullo spiazzo erboso davanti a casa e spense i fari. Rimase seduto al posto di guida, ripensando all’ultima volta che era stato lì. Erano trascorsi diversi mesi e non era venuto da solo; c'era Claudia con lui. Dopo una serata trascorsa in un elegante locale di Locarno erano tornati lì e avevano continuato a festeggiare solo loro due e una bottiglia di champagne che gli era costata mezzo stipendio. La mattina dopo, quando si era svegliato con un'emicrania devastante, lei non c'era più. Scomparsa, svanita nel nulla insieme a qualche milione di euro sottratti all'agenzia dove lavorava. All'affascinante stronza non mancavano né il coraggio né lo spirito d'iniziativa, doti per altro che aveva apprezzato fino a quella mattina. Purtroppo, anche l'avidità faceva parte della sua natura. Aveva pianificato tutto per raggirarlo, ma anche lui non mancava di iniziativa. Il lungo braccio della legge l'aveva cercata inutilmente. C'era stata un'inchiesta, gli inquirenti l'avevano interrogato a lungo e, alla fine, si erano convinti della sua estraneità al furto e alla successiva sparizione della donna. La parte più divertente era venuta dopo quanto si era goduto gli sguardi colmi di comprensione dei colleghi, poveri esseri inutili senza ambizione, il cui unico scopo nella vita era inculcare le loro conoscenze nelle teste di adolescenti foruncolosi e puzzolenti di sudore. Lui, no, lui non avrebbe sprecato così la sua vita; lui mirava in alto, molto in alto. Lui si meritava ben altro! Aveva delle ambizioni, lui! Se le cose fossero andate come pensava, non li avrebbe più rivisti. Adieu.

Recuperò le chiavi di casa nel cassettino del cruscotto e scese dall'auto. Sbirciò oltre gli angoli dell'edificio, perlustrando con lo sguardo il vicolo in entrambe le direzioni. Finalmente si decise a entrare. Accese l'interruttore e la luce diffusa dai faretti gli ferì gli occhi. Nell'elegante salotto stagnava l'odore tipico di un locale rimasto chiuso per tanto tempo. Mentre scendeva la scala a chiocciola e apriva ad una ad una le porte delle stanze, il cuore gli balzò in gola; risalì di corsa e tornò nel salotto. Sul piano di cristallo del tavolino tra i divani spiccava un braccialetto. Fu un miracolo se non gli prese un infarto. Poi, l'adrenalina cominciò a scorrergli nelle vene come una corrente elettrica. Uscì, e correndo, imboccò il sentiero lungo il fianco della casa. Al buio, inciampò, cadde, si rialzò, imprecando. Scivolò sull'erba umida, ma continuò a correre finché arrivò alla porticina del seminterrato. A tastoni cercò la chiave nascosta in un sottovaso. Con le mani che tremavano dopo un paio di tentativi riuscì ad aprire la vecchia serratura. Era sudato fradicio. Accese la lampadina che penzolava dal soffitto e si precipitò in fondo al locale. Era tutto a posto. Spense la luce e chiuse a chiave la porta. Per sicurezza, la scosse un paio di volte. Il sudore gli imperlava la fronte, gli girava la testa e aveva la nausea. Si appoggiò alla porta e chiuse gli occhi per qualche minuto. Poi, lentamente, tornò lungo il sentiero. Con circospezione rientrò in casa. Il braccialetto non c'era più. O aveva avuto un'allucinazione o qualcuno era entrato in casa mentre lui era di sotto e l'aveva rubato. Era uscito senza chiudere la porta a chiave; forse un tossico si aggirava nei paraggi e ne aveva approfittato per entrare, rubare il braccialetto che era lì in bella vista per poi sparire nella notte. In quel posto isolato e buio circolava di tutto di notte. Chiuse la porta a chiave e inserì l'allarme. Facendo attenzione a non fare il minimo rumore, scese le scale. Aprì la porta della stanza adibita a studio, la sua preferita.

«Che piacere rivederla. Come mai ci ha messo tanto?» La voce femminile proveniva dalla poltrona accanto alla finestra. Nascosta dall'alto schienale, non poteva vedere chi aveva parlato. Per la seconda volta nel giro di mezz’ora rischiò l’infarto.
«Lei chi è?» domandò con voce incerta. «E come ha fatto a entrare in casa mia?»
Lei non rispose. Lentamente si alzò, si girò verso di lui e si limitò a fissarlo. Non poteva crederci! Non era possibile, eppure lì, davanti a lui, c'era la giovane donna che aveva urtato uscendo dalla trattoria. Alla fine si decise a parlare.
«So cosa ha fatto» disse.
«Prego?» rispose, pur avendo sentito benissimo, ma non riusciva a credere che lo avesse detto. La donna estrasse la mano dalla tasca e gli mostrò il braccialetto. Lui lo fissò come se fosse un serpente pronto a morderlo.
«Lo riconosce?» domandò, ma non attese la sua risposta e proseguì. «Certo che sì. Lo giro e, sorpresa sorpresa ecco i numeri magici.»
Lui continuava a fissare l'oggetto, impietrito.
«Dove l'ha preso?» domandò, quando ritrovò la voce.
«Lei cosa crede?» domandò di rimando.
Lui era certo che nessuno fosse sceso nel seminterrato pertanto non poteva averlo preso lì e questa certezza gli fece riacquistare un po’ di sicurezza.
«Cosa vuole?» domandò, fissandola con odio feroce.
«Si sieda» lo invitò lei, indicandogli una delle poltrone. «Risponderò alle sue domande, ma prima le racconterò una storia. Le consiglio di mettersi comodo, sarà una cosa un po' lunga.»
Senza staccarle gli occhi di dosso, si sedette.
«Un giorno di circa un anno fa ricevetti una busta con questo braccialetto, accompagnato da una breve lettera.» Dalla tasca dei jeans estasse un foglietto e iniziò a leggere. "Ti mando questo braccialetto, tienilo tu. Io ne ho uno uguale. Se dovesse succedermi qualcosa, leggi i numeri incisi al suo interno e mettiti in contatto con questa password. Se tutto andrà bene, mi farò sentire presto. Ti voglio bene. Claudia." Ripiegò il biglietto e lo rimise in tasca.
«Non l'ho più sentita» disse, continuando a fissare il braccialetto. «Poi ci fu la denuncia di furto da parte dell'agenzia, l'inchiesta e tutto quel pandemonio» proseguì. «È in quell'occasione che ho conosciuto lei, non di persona, ma attraverso la tv e i giornali. Lei, il suo caro amico scrittore di successo di cui Claudia non mi aveva mai voluto rivelare il nome perché diceva che così era più intrigante. Pensai che lei avesse colto l'occasione per farsi un bel po' di pubblicità. In fondo Claudia se l'era filata coi soldi dell'agenzia, senza voltarsi indietro, abbandonandola senza pensarci due volte. Farsi un po' di pubblicità a sue spese era il minimo, o sbaglio?» Ovviamente era una domanda retorica e lui continuò a fissarla in silenzio. Mentre la donna parlava, lui era tornato padrone delle sue emozioni. Quella stupida credeva di sapere; in realtà non sapeva un bel niente.
«Non vorrei sembrarle scortese, ma di quello che lei pensa non mi importa un accidente. Claudia le ha mandato un braccialetto uguale al suo. Cosa vuole da me?»
«Voglio sapere che fine ha fatto Claudia.» rispose, fulminandolo con gli occhi.
Lui proruppe in una risata cattiva. «Non lo so, se n'è andata mentre dormivo. Ero anche un po' ubriaco, quella sera. Avevamo festeggiato. Come ha ricordato lei, c'è stata un'inchiesta, sono stato interrogato dalla polizia, dagli inquirenti, un vero incubo. Alla fine si sono convinti che io non avevo avuto alcun ruolo per quanto riguardava il furto né tantomeno per la sua scomparsa. Ed è esattamente quello che dovrebbe fare anche lei.»
«Io, al contrario, penso che lei abbia avuto un ruolo molto importante.»
Lui guardò ostentatamente l'orologio.
«Senta, è molto tardi e sono stanco. Lei è entrata in casa mia senza essere invitata, non mi ha detto nemmeno il suo nome. Sono stato paziente, ma ora questa conversazione è finita.»
La donna gli rivolse un sorriso enigmatico, che gli fece rizzare i peli del collo.
«Allora buona notte» gli augurò, alzandosi.
Lui l'accompagnò all'auto e attese che le luci posteriori svanissero oltre la curva, in fondo alla strada.
Era sudato fradicio. Si congratulò con se stesso per non aver fatto trapelare la minima emozione. Adesso, però, doveva agire in fretta. Non aveva alcuna intenzione di mollare i soldi all'amichetta di Claudia. Andò nella cameretta degli ospiti, poco più grande di una cabina armadio, si spogliò e infilò la tuta da sub. Scese in cucina e prese la torcia. Uscì sulla terrazza e si infilò nella galleria che collegava la casa alla darsena dove teneva la vecchia barca. Tolse il telo che la ricopriva, lo ripiegò sul fondo e allentò la corda che la teneva legata. E adesso cominciava la parte più faticosa. Faceva un freddo cane là sotto; le pareti della galleria grondavano acqua e i gradini erano scivolosi sotto le scarpette di gomma. Riemerse sulla terrazza che aveva il fiatone; si concesse un paio di minuti di sosta, maledicendo le sigarette che gli tagliavano le gambe e il respiro. Si impose di non farsi prendere dall'ansia; doveva agire in fretta, va bene, ma aveva ancora buona parte della notte a disposizione. Entrò nel seminterrato, accese la luce e aprì il congelatore. Afferrò il pesante sacco e, con un tonfo, lo scaraventò sul pavimento. In quel momento scoppiò il finimondo. La porta si spalancò e venne accecato dai fari di un paio di torce alogene. In pochi secondi si ritrovò steso sul pavimento di pietra e le mani ammanettate dietro la schiena. Un paio di braccia lo aiutarono a rialzarsi; sulla porta c'era lei, che con un sorriso soddisfatto faceva girare il braccialetto sul dito medio, mentre un poliziotto gli leggeva i suoi diritti.
Una settimana dopo, era seduta al tavolino di un bar prospicente il lago insieme ad un collega e si stava godendo il tepore dell'ultimo sole autunnale.
«Hai fatto un ottimo lavoro» si complimentò il collega.
«Ho avuto anche fortuna» minimizzò lei. «Non c'erano prove che lui fosse responsabile della sparizione di Claudia, ma non c'erano nemmeno prove del contrario. Lei era la mia migliore amica,» proseguì, facendo girare l'indice attorno al bordo del suo bicchiere, in un movimento quasi ipnotico. «Abbiamo condiviso la stessa stanza ai tempi dell'università; ci confidavamo i nostri segreti, condividevamo l'ansia prima degli esami e la gioia per averli superati o ci consolavamo a vicenda quando qualcosa andava storto.» proseguì, con la voce colma di tenerezza.
«Hai condiviso la stanza con una ladra?» esclamò il collega, incredulo.
«Già. Non la giustifico, sai, ma Claudia veniva da una famiglia povera e il denaro era la sua ossessione. Era molto bella e non faticò a trovare un lavoro 'redditizio'. Mentre io e le altre studentesse lesinavamo il centesimo, lei non si negava nulla, abiti, vestiti, gioielli. Cercò di coinvolgermi, ma non ero fatta per quel genere di vita. Lei fu sempre molto generosa con me e anche se sapeva benissimo che non approvavo il suo stile di vita, sapeva anche che non l'ho mai giudicata. Poi incontrò il padrone dell'agenzia e si fece assumere. Cominciò una nuova vita. Feste, ricevimenti, galà, crociere, vacanze in montagna insieme al suo capo.»
«Se aveva tutto, perché rubare i soldi dell'agenzia?» la interruppe.
«Perché i soldi non erano suoi, ma del suo capo. Di matrimonio neanche a parlarne; la faceva vivere nel lusso, ma lei restava una semplice impiegata. Se lui l'avesse 'sostituita', lei non si sarebbe più potuta permettere quel tenore di vita col suo stipendio.»
«E così ha pensato di assicurarsi il futuro.» commentò il collega.
«Poi conobbe lui, il professore affascinante, scrittore per passione che dall'oggi al domani si era ritrovato al centro dell'attenzione dei giornali e dei media perché il suo romanzo era diventato un best seller. La fama era durata più dei soldi. Lei ne era innamorata, me lo confidò durante uno dei nostri incontri, quando ci trovavamo per una pizza o anche solo per un caffé. Cominciarono a frequentarsi. Da quello che mi raccontava era chiaro che non gli importava nulla di lei; le aveva fatto perdere la testa e approfittava spudoratamente dei suoi sentimenti; ma lei non lo capiva, o meglio non voleva capirlo. Mi disse che era lei a pagare i conti perché lui era praticamente al verde. Forse è stato proprio lui a suggerirle l'idea del furto, non lo so. Quello che so è che lui era sicuramente al corrente di quello che lei aveva in mente. »
«Sarà anche stata innamorata, ma un dubbio su di lui deve averla sfiorata se ti ha mandato una copia del braccialetto e quel biglietto» disse il suo collega.
Lei gli sorrise e si schiarì la voce. «Claudia non mi ha mai mandato né un braccialetto né il biglietto.»
«Ma ...
«Mi sono inventata tutto per incastrare quel bastardo» sussurrò.
«Che cosa?» sibilò «Ti rendi conto che avresti potuto giocarti la carriera! Pensa se non avessi trovato niente e quello ti avesse denunciata per violazione di domicilio o qualche altra stronzata!»
«Io ero sicura che a Claudia era capitato qualcosa di brutto. La conoscevo bene; si sarebbe fatta viva con me, ne ero certa, dovunque fosse, anche se lei era una ladra e io una poliziotta. Per mesi ho aspettato che mi contattasse in qualche modo. Tenevo d'occhio anche lui; se all'improvviso fosse scomparso avrei dedotto che l'aveva raggiunta in uno di quei posti dove i soldi cambiano nome e cognome e mi sarei messa l'animo in pace. Ma lui era sempre qui, non ha mai cambiato stile di vita, né ha fatto viaggi o spese pazze; non avevo prove che lo accusassero, ma il mio istinto mi diceva che era colpevole della scomparsa di Claudia. Dato che l'inchiesta l'aveva escluso dai sospettati, non potevo fare niente, avevo le mani legate. Inoltre era diventato famoso con quel suo libro; immagina cosa sarebbe successo se l'avessi accusato senza lo straccio di una prova. Dovevo raccogliere le prove. Ho passato nottate a rileggere i verbali della polizia e le interviste che lui aveva rilasciato praticamente a tutti i giornali nazionali, sbandierando la sua innocenza ai quattro venti. Poi, un giorno, anzi una notte mentre sfogliavo l'ennesima rivista, trovai le foto di lui e Claudia alla festa proprio la sera prima della sua scomparsa, notai il braccialetto. Era una patacca da pochi euro e mi parve strano. Andai a cercare altre foto e in tutte, Claudia lo portava al polso. Doveva esserci un motivo per indossare un abito da cinquemila euro e una patacca da nemmeno cinque. In un primo piano, erano ben visibili dei segni incisi sul metallo. Fui interrotta dalla telefonata di mia madre che mi informava, tra l'altro, che il nonno si era perso per l'ennesima volta, ma che fortunatamente era stato visto da un conoscente che l'aveva riaccompagnato a casa. Mio nonno soffriva di Alzheimer e la nonna gli aveva messo al polso un braccialetto con inciso il numero di telefono di casa, nel caso si fosse perso. Allora ebbi un'illuminazione. Hai presente quando ti si accende la lampadina nella testa? Andai a recuperare la foto del braccialetto in primo piano, presi una lente di ingrandimento e scoprii che quei segni erano numeri. Claudia doveva aver inciso i numeri del conto su cui versare i soldi sul braccialetto, per questo non se ne separava mai. Era solo un'ipotesi, e anche abbastanza fantasiosa, ma da qualche parte dovevo partire. Ne ho comprato uno uguale e ho aspettato che lui tornasse alla casa sul lago. C'ero stata una volta con Claudia, mentre lui era impegnato a presentare il suo libro da qualche parte. Claudia digitò il codice dell'antifurto ad alta voce. "Giocali al lotto" mi disse. Non li ho giocati, ma li memorizzai. Così, la settimana scorsa sono entrata in casa senza dover commettere un'effrazione; ho lasciato il braccialetto sul tavolino bene in vista, poi sono scesa nello studio da dove potevo tenere d'occhio il sentiero che scendeva lungo il lato dell'edificio. Lo sentii arrivare; aprì la porta e accese la luce. Subito non deve aver visto il braccialetto perché l'ho sentito scendere le scale, poi però è tornato su di corsa, ed è uscito sbattendo la porta. Mi sarebbe piaciuto vedere la sua faccia! Dalla finestra l'ho visto correre giù per il sentiero. Saranno passati dieci minuti ed è tornato. Quando è entrato nello studio, ho iniziato la recita. Dovevi vedere la sua faccia quando ho estratto di tasca il braccialetto, per poco non gli è venuto un infarto! È stato molto attento a non dire niente di compromettente, comunque, ma io ormai sapevo di averlo messo in allarme. E come tutti i delinquenti dilettanti sicuramente avrebbe fatto un passo falso. Bastava aspettare e non ho dovuto nemmeno aspettare tanto. Ho avuto giusto il tempo di chiamare i ragazzi che erano pronti ad intervenire. Povera Claudia, non era mai uscita da quella casa, per tutti questi mesi era stata in quel sacco nel congelatore nel seminterrato. Durante la perquisizione abbiamo trovato il braccialetto, e la valigetta con i soldi; ora si avvieranno la pratiche affinché vengano restituiti all'agenzia.
«E il nostro eroe, cosa dice?» domandò il collega.
«Continua a proclamarsi innocente; gli hanno assegnato un avvocato d'ufficio che non perderà certo le notti per farlo assolvere.»
«Beh, visto che è uno scrittore, in carcere avrà un sacco di tempo per scrivere.»
«Hai ragione; e sai cosa ha detto quell'idiota quando lo hanno ammanettato? »
«No, cos'ha detto?»
«Toglietemi le manette, per favore. Devo scrivere l'ultimo capitolo del mio libro, altrimenti dovrò pagare la penale al mio editore!»

 

Maria Lacchio nata a Novara, laureata in Lingue e Letterature straniere allo I.U.L.M. di Milano, ha insegnato lingua e letteratura inglese e ha lavorato come editor e traduttrice freelance. Vive con la famiglia a Santhià dove collabora con l’Associazione Culturale “La Voce ODV” nell’organizzazione di eventi culturali.
Ha pubblicato:
nel 2009 “Magrepha” romanzo storico stampato col contributo della Provincia di Vercelli nel 2012 “Il ricordo è futuro” auto pubblicato. Breve biografia del poeta Bruno Vilar nel 2018 “Il Ciondolo” giallo storico. Edizioni Solidago
Finalista ai concorsi: “Giallo Stresa” 2021 col racconto “L’ultimo capitolo” “Scritture di lago” 2022 col racconto “La salita”. Il racconto “L’astronave” è stato pubblicato nel volume antologico “Racconti del Piemonte 2021” e il racconto “Feldmaresciallo” nel I Volume del volume antologico “Racconti del Piemonte 2023” Historica edizioni di Francesco Giubilei

 

 

Al ladro al ladro (I pomodori di Vettigné)

- di Renzo Bellardone -

 

“Al ladro, al ladrooooo!”
Non ricordo se prima sentii la voce o se prima vidi le punte del forcone rivolte verso di me.
Dopo un lungo cammino da Signa verso il Santuario di Oropa, mi ritrovai ad un torrente che con le sue fresche acque mi diede sollievo e nuova vitalità, oltre che a scatenarmi un vivace appetito che al momento non potei soddisfare per aver esaurito le scorte.
Ma lo spirito del pellegrino è sempre forte anche di rassegnazione, sopportazione ed attesa paziente.
Fatto il bagno nel torrente e asciugatomi al bel sole estivo, mi rivestii e, ripresa la sacca in spalla, mi avviai verso un borgo cintato con al centro una bella torre. Superai l’ingresso ad arco ed entrai. Un gran bel borgo che si intuiva abitato e vivace, ma la calda ora della sosta post prandiale faceva sì che il villaggio fosse assolato e deserto, salvo qualche gatto sonnacchioso e un cane che invece di abbaiare e far la guardia se ne stava sdraiato su un lato a boccheggiare…
Mi aggirai curioso ed in fondo vidi un orto lussureggiante che attrasse il mio interesse e i rossi pomodori luccicanti al vivido bagliore sollecitarono ancor più il mio languorino insoddisfatto.
Erano molti, belli, rosseggianti, polposi ed invitanti; la riservatezza fu abbandonata e l’appetito ebbe il soppravvento. Ne colsi uno grande e ben maturo che avidamente addentai, quando...
“Al ladro, al ladrooooo!”: un bifolco spuntato da chissà dove e come, urlando mi stava minacciando con un tridente. Alle urla usci un cagnetto abbaiante e rissoso, seguito da una donna corpulenta con un fazzoletto in testa e un gran grembiule grigio tenuto a metà risvoltato in vita che alzando le braccia prese ella stessa ad urlare.
La mia natura pacifica (e la situazione che non prometteva nulla di buono) mi indussero a piegare leggermente un ginocchio così da simboleggiare una penitente genuflessione e a unire le mani a guisa di preghiera: “Perdonate è la fame, non ho soldi per pagarvi né merce da offrirvi. L’unica mia ricchezza terrena sono gli abiti che indosso e il bastone cui mi appoggio nel mio peregrinare. Per chiedere il vostro perdono e ringraziarvi per la clemenza posso pregare per voi ed invocare salute e serenità sulla vostra casa”.
Alle mie miti parole il rude contadino abbassò lievemente il forcone e magicamente la donna dopo qualche bofonchiamento si strofinò le mani e le appoggiò ai fianchi con condiscendenza e così il mio cuore smise di battere all’impazzata e mi tranquillizzai.
“Ringraziate che son passati i tempi del capitano Facino Cane, altrimenti vi avrebbe fatto trucidare, ma sentite un po’ buon uomo… prendete pure un altro pomodoro se volete, anzi Pinota cogli un paio di pomodori e vai nel pollaio a prendere un paio di uova fresche e già che ci sei preparagli una bella insalata. E voi venite in casa che almeno fa più fresco” disse, incamminandosi verso casa.
“Da dove giungete, dove siete diretto?”
“Al Santuario di Oropa e al Sacro Monte di Varallo, son pellegrino e vago da un Santuario all’altro. Ho casa a Signa, fuor di Firenze, ma il mio spirito penitente mi porta a ricercar conforto e pregare per le anime dei vivi e dei morti nei luoghi consacrati alla preghiera..”
“E fate tanta strada per pregare? “
“Sì e prego anche cammin facendo ringraziando il Signore per il Sole, la pioggia, le farfalle, l’aria i fiori e… i pomodori”
Entrambi scoppiarono in una fragorosa risata. Eh si i pomodori …..

 Giunti alla casa che era proprio a due passi dall’orto non cintato, un che di semplice e familiare accolse il pellegrino che disse chiamarsi Marcus. La tavola già apparecchiata a metà con un gran recipiente pieno di pomodori con le uova sode a spicchi, un gran boccale ed una brocca d’acqua del pozzo, un tocco di pane scuro...

“Lo volete un goccio di vino? Non è molto forte ed un po’ aspro, ma lo facciamo noi mischiando l’uva fragola con il clinto e vi assicuro che è genuino e non ubriaca… vi fate una pipì e se ne va...”
Ringraziai molto per l’accoglienza e per il cibo fresco e genuino, ma dissi di aver ancora strada da fare e che prima del calar della notte pensavo di giungere nel biellese ed il giorno successivo a Oropa. Prima di congedarmi, e per reale interesse, chiesi di fare una breve visita al borgo ed il Giuspin, così si chiamava il contadino. insieme alla moglie Pinota mi accompagnarono in una breve visita.
Chi l’avrebbe detto quanto era florido il villaggio che ora si stava animando: il suo nome era Vettignè e derivava da Vectigal, ovvero il dazio che si pagava per attraversare il borgo, insomma un dazio per un luogo che molti anni fa era molto importante in quanto crocevia tra la Via Svizzera e la Via Francigena.
Il Giuspin gli fece vedere dove c’erano i magazzini, le stalle e la casa padronale con l’alta torre svettante al cielo ed ancora il mulino e le scuole. La moglie rimproverandolo di dover ancora raccogliere il bucato steso ad asciugare si congedò ringraziando per le preghiere che Marcus avrebbe fatto per la sua famiglia.
Il Giuspin lo portò ancora a vedere la chiesetta e qui con una vigorosa stretta di mano si salutarono. “Buona fortuna” .
Il Pellegrino non era ancora giunto in fondo al viale che comparve come dal nulla la Pinota che quasi furtivamente, ma con un benevole e complice sorriso, gli consegnò una borsa di stoffa con un pezzo di pane scuro e due pomodori rossi e polposi.
“Benvenuti, benvenuti a Vectigal… pardon, a Vettigné”.

 

La telefonata

- di Mariella Boggio -

Bella giornata. La suoneria della sveglia ricorda a Mum che è ora di alzarsi. Il suo cuore è colmo di gioia. Tra poco incontrerà le tre amate ragazze. Il cielo è limpido, senza una nuvola. E laggiù, in fondo, le cime dei monti si stagliano nette contro l' azzurro. L' aria è mite, nonostante l' autunno sia già iniziato. Sarà una bella giornata!
Poi arriva quella telefonata. Il gelo stringe il suo cuore e la nebbia avvolge ogni cosa. La vita di Mum non sarà più la stessa.

II RICORDANDO 

 

Ricordi

- di Laura Scarcella -

Papà mi aveva comperato un triciclo e nella piccola fotografia in bianco e nero sono in cameretta. Alle mie spalle sul lettino c’è una bambola vinta alla lotteria della festa del paese, ha un bel cappello di stoffa e un vestito tutto di tulle con la gonna che forma un grande cerchio. Io sono seduta sul triciclo con aria compunta, lo sguardo fisso rivolto alla macchina fotografica, i piedini sui pedali e la ruota davanti messa un po’ di traverso per sicurezza. Sembro a mio agio. Ho un fiocco bianco in testa e un vestitino chiaro con i volant che fa contrasto con gli scarponcini scuri da montagna. A cosa starò pensando? Che posso andare più veloce pedalando, posso decidere dove andare e se allontanarmi. Però devo imparare. Imparare è difficile.
Nella cantina polverosa della mia casa nativa al Sud, ingombra di cose più disparate, è rimasta la bicicletta di mio padre. È verniciata di rosa, la usavano le mie nipoti. Non avevo mai provato a salirci. Mio fratello per soddisfare un mio desiderio la mette in ordine e io faccio un giro attorno all’isolato. È estate. Ci sono delle paesane, alcune vestite di scuro segno di un lutto recente, sedute sulle sedioline fuori dalle porte a godersi il fresco della sera. Io indosso una canottiera colorata e dei fuseau leggeri, ai piedi dei sandali bassi. Carico la bicicletta in macchina per portarla alla casetta che ho affittato per le vacanze mentre mio fratello continua a parlare con le vicine. Arriva sorridendo e dice che gli hanno chiesto chi è quella ragazza e perché porta via la bici di papà. “E’ mia sorella, la piccola, è qui in ferie” risponde. (I più giovani della famiglia rimangono sempre “i piccoli”). Il giorno dopo vado a fare la spesa in bicicletta, mi sembra di volare. Sarà il vento a favore, chissà. Sarà il vento che mi è entrato negli occhi a renderli lucidi.
La vacanza è finita e la bicicletta è stata riportata in cantina. Che strani luoghi sono le cantine, come le soffitte, contengono pezzi di passato che non vogliamo dimenticare, da cui non vogliamo separarci. Pensiamo che possano esserci ancora utili e ci rallegriamo quando li riportiamo alla vita. Ed è una cosa, questa, che purtroppo non possiamo fare con le persone care che sono andate via.
La soffitta della mia casa attuale mi piace chiamarla “la casa della memoria” o “dei ricordi”. Perché ci sono vecchi mobili donati da parenti o amici, vestiti dismessi da donare ai bisognosi, soprammobili, coperte, piatti, libri.
Poi c’è “una cosa piccola piccola” che custodisco gelosamente da anni: una lettera spedita dalla Calabria in una busta gialla intestata a me, nome e indirizzo scritti con la calligrafia incerta di chi ha frequentato solo la terza elementare. È mamma. Voleva che la conservassi io perché è sempre piaciuta la storia e mi interessavano i racconti del passato. La lettera ha percorso milletrecento chilometri e contiene copie autenticate di documenti tra cui un congedo illimitato per un soldato mandato in guerra, riportato in Italia su un aereo militare e ricoverato a lungo in ospedale per congelamento ai pedi, mio padre.
Se penso alla mia regione d’origine la vedo come in una cartina geografica. Lunga e stretta, bagnata da due mari e percorsa al centro da una catena montuosa. Poi vedo i colori, l’azzurro del cielo e del mare, il sole da gennaio a dicembre. E una natura generosa. Ogni stagione dell’anno ha odori colori e sapori diversi. Come in un quadro del Rinascimento un trionfo di frutti. Pesche, albicocche e nespole. Meloni, angurie e fichi d’India. Arance, mandarini e castagne. Andare nel frutteto dello zio alla ricerca dei fichi più maturi, quelli con la goccia di miele e mangiarli con l’avidità del neonato che trova la goccia di latte al seno della madre. Dare dei colpetti con le nocche alle angurie per sentire se risuona il vuoto per trovare quella più zuccherina. Staccare i pomodori rossi e polposi dalle piante e odorare il basilico in una striscia verde lì vicino. E, nelle passeggiate, raccogliere l’origano profumato e selvatico, come tante erbe, cardi e carciofi che nascono spontanei. Ma questa regione non riesce a tenere tutti i suoi figli, così tanti sono costretti ad emigrare, per necessità o attirati dal miraggio di una ricchezza promessa. Come avevamo fatto noi. Abbiamo conosciuto il freddo e la nebbia così fitta da non vedere la strada di casa. E la neve cadeva abbondante, per poter uscire di casa bisognava spalarla e fare cumuli nel cortile e ai lati della strada. Noi figli e i figli dei vicini ci preparavamo la granita prendendo la più soffice e aggiungendo dello sciroppo alla frutta, ma mio padre tremava e aveva gli incubi. Ripensava alla guerra in un paese straniero, alla neve e al gelo, alla paura che gli venissero amputati i piedi. Non poteva resistere a questo clima e cosi’ è ritornato al paese e ha riaperto la nostra casa. Noi siamo rimasti qui. Per il nostro bene, diceva mia madre, per un futuro migliore. Mio fratello maggiore dopo un po’ di tempo lo ha seguito, io non ho potuto decidere, ero ancora piccola. Alla morte di mio padre mia madre è tornata al paese, io ormai ero adulta e mi ero ambientata. Ricordo che quando qualcuno voleva farmi un complimento mi diceva “Non sembri meridionale”. Io assomigliavo tanto a mio papà ed era stato lui a scegliere il mio nome. La tradizione voleva che i bambini portassero il nome dei nonni o del Santo del giorno di nascita. Io ero nata al solstizio d’estate ma mio padre era stato irremovibile, “Basta con queste usanze”, e aveva scelto un altro nome su consiglio di un’amica di famiglia. “Chiamatela Laura” aveva detto la signora “datele un nome moderno, nuovo”. E chissà se nel 1300 il poeta Petrarca riteneva moderno e attuale il nome Laura per colei che si immergeva nelle “chiare ,fresche e dolci acque”. Aveva lo stesso nome di mio padre, Francesco. E porto un cognome che è la sacchetta in cui si custodivano le monete. Così si chiama in alcuni paesi un dolce tipico della Pasqua. Ricco di uova, glassa bianca e confettini colorati e argentati, preparato e consumato come buon augurio di benessere dopo il lungo periodo di Quaresima.
Fu così che un bel nome importante e una lettera contenente una verità autenticata da firme e timbri sono state la mia eredità e la mia ricchezza morale.

 

Mi chiamo Laura Scarcella. Dopo aver lavorato per tanti anni presso una grande azienda ora sono la responsabile del mio tempo libero. Amo leggere, scrivere, frequentare dei corsi, camminare e andare in bicicletta. Vivo con la mia famiglia a Santhià.

 

 

E La mente va

Ai met 'na broca!

- di Luisa di Rimini - 

"Oddio, quanto crescono questi piedi” diceva mio nonno.
"Speta, ai met 'na broca", aggiungeva.
Purtroppo il chiodino era sempre più lungo della suola dei miei sandali e mi faceva male al piede. E poi tra bambini, in campagna, allora, era normale andare scalzi. E così anch'io, che ero "della città", lasciavo i sandali sulla terrazza dell'Anna o della Tina .… via. Appena mettevo i piedi sulla ghiaietta, rimpiangevo i miei sandali e cercavo le zone sabbiose ai margini del sentiero, ma alla prima spina urlavo come un’ossessa, anche dopo che qualche anima buona me l'aveva tolta. Non era proprio dolore. è che volevo fare la forte: tutti erano scalzi e io, stringendo i denti, non volevo essere da meno, e restavo sempre con gli altri bambini.
In realtà, li nonno ribatteva li chiodino da una parte e dall'altra; non dava nessun fastidio, ma io trovavo tutte le scuse per togliermeli. C'era li motivo: volevo andare con gli altri.
A sedici anni, al mare, mio padre faceva la stessa cosa e io li buttavo regolarmente nella spazzatura. Lui scuoteva la testa, "sono ancora buoni" diceva. Non eravamo ricchi, non eravamo poveri. Ma le scarpe erano qualcosa di importante.
Ero già sposata, quando un giorno vidi mio suocero che prendeva un attrezzo e un martellino; tic tic, toc toc … ma cosa stava facendo? "Sto aggiustando le scarpe!" disse; aveva tutta l'attrezzatura, come un calzolaio perché voleva fare un lavoro ben fatto.
Oggi non c'è più nessuno, ma io conservo un paio di "quelle scarpe" di una volta.

 

 

Era mia nonna

- di Francesca Corradini -

 

Albina, classe 1922. Mondina. Mia nonna.
Il 20 ottobre del 2022 avrebbe compiuto cent’anni. Non c’è arrivata: se n’è andata nel sonno i primi di giugno del 2019. Una morte serena.
Ai miei occhi nonna è sempre stata un’eroina. Rimasta vedova nel 1981, 38 anni di solitudine, anche se non sembrava soffrirne più di tanto. Con le sue amiche di condominio, Amabile bassa e minuta e Maria detta Biuti alta e corpulenta, formavano un trio divertente. Quante sere da bambina ho passato con loro, ridendo come una matta guardando in tv i film di Bud Spencer e Terence Hill, bevendo acqua e zucchero.
E poi ad occupare il tempo di nonna, la Chiesa. A messa tutti i giorni. E le gite della parrocchia al mare, ad Arenzano, ospite delle suore. Piccola, minuta e con la schiena ricurva, nonna si preparava con cura la valigia e si presentava puntuale al pullman che per qualche settimana l’avrebbe portata lontana dal suo appartamento di via Tagliamento. Il balcone di quella casa che per tanti pranzi, cene e nottate mi ha amorevolmente ospitata distava poche decine di metri in linea d’aria dalla nostra abitazione. Dal balcone vedevo il suo. E se affacciandomi non c’era, la chiamavo per telefono e ci davamo appuntamento, salutandoci da lontano con la mano.
E poi i nostri mesi estivi insieme nella casa di Oldenico. Indimenticabili.
Un incidente ha segnato il suo lento declino. Rottura di tibia e perone. Appartamento al secondo piano di un palazzo senza ascensore. La nostra famiglia sempre presente ad aiutarla e supportarla anche fisicamente, a tenerla per mano mentre provava a fare le scale per scendere in cortile e risalire. Poi l’età ha iniziato ad avanzare, altri acciacchi e i primi problemi di memoria.
Con quanta dedizione la sua unica figlia si è dedicata a lei. Tutti i giorni. Mattina, pomeriggio e sera (spero di essere forte come mia madre un giorno....)
Anche nella malattia e nella non lucidità, la memoria sedimentata riportava in superficie chicche legate alla sua gioventù: le canzoni della monda, aneddoti dei giorni passati con le altre mondine lavorando sotto il sole cocente, l’orgoglio per la sua prima bicicletta regalatale da mio nonno, a 12 anni. Bici che l’ha accompagnata per tutta la vita. E poi il matrimonio con il suo Pietro nel giorno di San Lorenzo, patrono di Oldenico, e il “bal al palchet” il ballo a palchetto, le danze. E poi il ricordo indelebile dei giorni in cui c’era la fame, gli anni del fascismo, quando guardando il mio papà, di 26 anni più giovane, chiedeva “Giorgio ti ricordi quando a Quinto è passato il Duce?” e lui per non deluderla rispondeva “Si, certo”. Quando per le occasioni la vestivano da giovane italiana, camicetta bianca e gonna nera.
Nonna sapeva il nome di tutti i santi presenti in ogni singolo giorno del calendario. Il suo cavallo di battaglia erano i proverbi, che dispensava a chiunque, uno per ogni occasione e ogni stagione. E poi i detti popolari: che rammarico non essermeli segnati tutte le volte che ne diceva uno nuovo. Mi sono sempre impegnata a ripeterli, nella speranza di ricordarmeli un giorno, ma purtroppo con scarsi risultati. Solo una volta mi ha completamente spiazzata. Ora ci penso e rido, ma all’epoca dicevo: ma proprio a me deve chiedere una cosa simile?
Un giorno, nonna mi gurdò e disse: “Adesso gioia ripeti insieme a me: noi siamo le colonne dell’università, viva il Duce e la Libertà”.
Eh no nonna! Questa proprio non ce la faccio!”.

 

 

III Altri contributi

 

Una vita in una pagina

- di Nunzio Cordaro -

 

Raccolgo l'invito a scrivere, non ho mai avuto occasione di provare, poi riflettendo mi son detto "Mai dire mai"...
Durante la seconda guerra mondiale ero un bambino, ho vissuto un periodo molto triste, per motivi di salute, e poi il momento era quello che era.
Finita la guerra sono andato a scuola, ho fatto le elementari' ricordo che ci sottopevamo a visite mediche, le condizioni di vita in generale e di salute miglioravano.
Poi, tra periodi belli alternati a quelli tristi, il desiderato diploma, quindi la ricerca di un posto di lavoro per avere uno stipendio e cercare di aiutare la famiglia, ma prima, purtroppo, partii militare: altri 18 mesi e poi il congedo.
Torno, trovo un impiego dopo un trasferimento in un'altra città.
Comincia un nuova vita aiutando la famiglia.
Conosco tante persone e dal momento chesono altruista faccio anche del volontariato... e intanto gli anni passano... Arriva così la pensione, ma la voglia di dedicarmi al volontariato è rimasta.
Così come il desiderio di conoscere tutto quello che si può come andare in giro per musei, seguire congressi, riunioni politiche, leggere. Penso che si possa invecchiare bene, con serenità...
(In queste poche righe mi auguro d'essere stato chiaro. E come diceva un mio bravo professore: "Stretta la foglia, larga la via: dite la vostra che ho detto la mia!")

 

 

Di cosa scrivo?

- di Manuela Clerico -

Già, sembra facile..."scrivete quello che volete, alcune pagine, una paginetta… una frase, un rigo appena...
Mi è tornata in mente la mia meravigliosa e severissima maestra che il giovedì ci dava il compito,'componimento libero ', rimasto nella memoria del pomeriggio di vacanza settimanale come una iattura, un incubo odiatissimo da grandi (le mamme) e piccini (noi e i nostri fratelli che volevano giocare).
Comunque dopo le rimembranze di "come eravamo felici" rimane il problema di riempire il vuoto, la pagina  bianca, che si trasforma in horror vacui e disattiva circuiti neuronali normalmente abbastanza funzionanti, e ci si ritrova come in terza elementare: di cosa parlo?
E quindi: cosa cavolo scrivo? E poi, argomento a parte, scrivo in prima, in seconda o in terza persona? Bel problema, i critici letterari e gli insegnanti ne discutono da sempre senza mai trovare accordi, è una questione di significato profondo, di cultura, di momento storico, di sensibilità linguistica, di preferenza, di comodità eccetera eccetera.
In ogni caso siamo sempre qui, fermi al palo: Di cosa scrivo?
Vita vissuta: ma no,  a chi vuoi che interessi?
Situazione geopolitica: è un tale ginepraio che neppure Aldo Moro, forse Andreotti  saprebbe più o meno districarsi.
Economia e finanza: ... aiuto!
Religione? Ma che mi viene in mente?
Salute: argomento tabù,  guai! Scatena guerre...
Ma allora di che si può parlare/scrivere?
Forse di Carnevale, ma siamo a Santhià,  è meglio evitare...
Altro argomento che ha molto successo è il "gossip" che detto in italiano (lingua in via di estinzione, come il panda, che però non solo non è protetta, ma viene proprio massacrata senza pietà) sarebbe "pettegolezzo ". È un  argomento su cui  non sono  preparata, anzi, l'ho sempre odiato,  sa di menti ristrette, di meschinità,  di ignoranza e di tanti altri pessimi sostantivi .
E quindi? Di cosa scrivo? Che stress...pensa, pensa, pensa ( mumble mumble diceva Paperino)
Ma certo! Che idea geniale! Prendo spunto dalla cultura dominante, le grandi firme,  i grandi giornali! Perché non ci ho pensato prima?
Scriverò di niente! Ecco! Veramente geniale....scrivere, parlare,  pensare il niente!  E tutto ciò facendosi pagare!  È il massimo, solo il tanto decantato e invidiato Genio Italico poteva arrivarci.
E infatti ci è arrivato, e si vede...purtroppo!

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