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Arte e Cultura | 19 novembre 2022, 02:01

"Furore" sul palco del Civico, martedì

Massimo Popolizio nell'adattamento drammaturgico del capolavoro di Steinbeck, una storia “che bussa violentemente alle porte del nostro presente”.

Massimo Popolizio in Furore (foto Federico Massimiliano Mozzano)

Massimo Popolizio in Furore (foto Federico Massimiliano Mozzano)

Martedì 22 novembre alle 21 approderà sul palco del Teatro Civico Massimo Popolizio con “Furore”, un monologo ideato e diretto dallo stesso attore e che dà voce a un intero popolo in fuga nell'America della Grande Depressione, alla ricerca di una terra promessa tra sfinimento ed emarginazione.

Al grande attore genovese è affidata dunque l'apertura della stagione teatrale, organizzata dal Comune di Vercelli in collaborazione con Piemonte dal Vivo. Lo spettacolo è prodotto dalla Compagnia Umberto Orsini e dallo Stabile di Roma.

Dalla pagina scritta dell'omonimo romanzo di John Steinbeck, al progetto ideato da Popolizio stesso e affidato all'adattamento drammaturgico di Emanuele Trevi, sono trascorsi ormai tre anni di successi e critiche entusiastiche in moltissimi teatri italiani. Sul palco, in una sorta di jam session, il percussionista Giovanni Lo Cascio lo accompagnerà “a vista”. “I suoni che mi inseguono sono come una piccola partitura emotiva” spiega l'attore ronconiano.

Sarà un inizio “caldo” quello di martedì. In cerca di una nuova vita.

Come la lunga estate del '39, quella in cui la famiglia Joad, contadini dell'Oklahoma, abbandona i campi distrutti da una serie di tempeste di sabbia e si unisce all'epopea epica della migrazione di migliaia di persone che, come una marea incessante e disperata, si muovono dall’Oklahoma verso la California, lungo la Route 66.

“Sono il cronista a caldo (non il narratore) – dice Popolizio – metto in voce l'esodo di un'epopea impressionante sulla spinta di una crisi agraria. Faccio una performance da sentire più che da vedere”

Dunque sarà anche un inizio molto “furente, furioso, infuriato” come lo erano i toni di Steinbeck sulle pagine del San Francisco News, nel denunciare la drammatica situazione della crisi agraria negli Stati Uniti e delle sue spaventose conseguenze per migliaia e migliaia di famiglie americane.

Il futuro premio Nobel andò avanti per ben tre anni nella sua spietata denuncia, quasi una “vox clamantis in deserto”, il che suona più che mai tragicamente attuale.

Sublimò questo grande lavoro d'inchiesta e di ricerca minuziosa in quello che è considerato il suo capolavoro, il romanzo simbolo della Grande Crisi, pubblicato nel 1939 a New York dal titolo originale The Grapes of Wrath / I Grappoli d'Ira, tratto da un canto popolare della Guerra civile.

Popolizio “dialogherà” con il libro attraverso le 200 immagini che scorrono, molte delle quali scattate dalla più grande fotografa dell'epoca, Dorothea Lange. “Un processo di simbiosi , io parlo con loro e loro mi danno voce” .

E' una storia “che bussa violentemente alle porte del nostro presente”. Una storia di povera gente, un flagello di massa, contadini disperati e impotenti contro quel Ciclope senza pietà che era il sistema bancario americano, che espropriava le loro terre e li spingeva a cercare fortuna dal Midwest verso la California. A questi sventurati era proibito persino raccogliere la frutta marcita per sfamarsi. Ma è anche la storia del disastro dell'America odierna, un disastro sociale che ha radici lontane, in un razzismo congenito nei confronti di coloro ai quali appartiene per diritto di nascita questa terra così piena di insanabili contraddizioni. (rf)

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