Si concluderà domenica 13 novembre l'esposizione al Museo Leone delle oltre quaranta opere dello scultore vercellese Guglielmo Tricerri, provenienti dalla collezione privata di famiglia e messe a disposizione del pubblico grazie alla collaborazione fra l'associazione Artes Liberales e lo stesso Museo. La mostra che ne omaggia la memoria è ospitata nella Sala d'Ercole ed è stata curata da Luca Brusotto, conservatore dello stesso Museo.
Qui incontriamo Barbara Tricerri, figlia del grande artista. Ci parla di suo padre, scandagliandone i ricordi che si affollano ed emergono colmi di lacerante emozione.
Da bambina mi attardavo nello studio di mio padre. Amavo guardarlo creare, in silenzio. Ammiravo i suoi gesti, ero affascinata dalle sue mani, bellissime, seppur segnate dai calli di una vita passata a maneggiare scalpelli e mazzuoli. Quelle mani che trasformavano una materia inerte in forme artistiche pulsanti di vita propria.
Le permetteva di rimanere a guardarlo mentre lavorava?
In realtà io cercavo di non farmi scoprire, salivo a chiamarlo quando ci si doveva mettere a tavola. Attendevo con gioia quel momento, e lui era talmente assorto nel suo lavoro che non si accorgeva subito della mia presenza. Era un uomo dal carattere molto riservato, e non si concedeva facilmente agli sguardi, alle esternazioni affettuose. Era discreto, schivo, ma mai burbero. Semmai gentile e benevolo, di esemplare modestia. A mio padre non importava apparire, di veder documentata e affermata la sua arte.
Le insegnava a disegnare?
Purtroppo ero e sono priva del suo dono. Ci provavo con tutta me stessa, con le sue matite, i suoi gessetti...ma mi rendevo conto di essere una frana.
Però ha ereditato il dono dell'insegnamento.
Non è paragonabile alle sue attitudini didattiche. E' stato un grande insegnante, per più di trent'anni, all'Istituto di Belle Arti, e ancora oggi i suoi allievi lo ricordano con grande affetto e riconoscenza. Un gruppo di allieve è venuto a visitare la mostra, lasciando scritti messaggi meravigliosi, toccanti. Alcuni di loro mi hanno confidato che non è stato solo un maestro d'arte ma un vero maestro di vita.
Ci tratteggia il percorso professionale di suo padre? Per comprendere meglio le opere qui esposte.
In giovanissima età si trasferì qui a Vercelli dal suo paese natale, Trino, e andò a lavorare presso la bottega di un noto intagliatore, Bosi. Si iscrisse successivamente al'Istituto di Belle Arti frequentando lo studio dello scultore Porzio, inoltre fu allievo di Michele Guerrisi all'Albertina di Torino. Scoppiò la guerra e fu mandato a combattere in Albania e in Grecia. Venne fatto prigioniero in Germania e destinato a un campo di lavoro, dove visse esperienze terribili e ne uscì profondamente segnato. A liberazione avvenuta soggiornò per un periodo di tempo in Belgio e poi tornò a Vercelli, dove si sposò e iniziò a insegnare presso lo stesso Istituto di Belle Arti ove si era formato e il Liceo Artistico “Ugo Foscolo”.
Nonostante la sua proverbiale riservatezza gli impedisse gesti plateali di dimostrazione affettuose, il suo animo era profondamente sensibile, come gli animi di tutti i veri artisti. E questo si riflette nelle sue creazioni, in modo evidente.
Come definirebbe la sua arte?
Basta guardare le sue sculture per capire quanto mio padre si esprimesse in modo essenziale. Sicuramente ispirato da Giacometti, almeno a prima vista. Amedeo Corio, che curò la precedente mostra del 1986 sempre qui al Museo Leone, nel suo “Ricordo di Guglielmo Tricerri”, cita come fonti di ispirazione Marini e Manzù nel rimarcare lo stile molto scarno delle sue opere oltre all'ammirazione per lo scultore simbolista Adolfo Wildt del quale lo affascinava l'esasperata manualità.
Dalle opere esposte si evince che suo padre era un attento osservatore di quanto accadeva intorno a lui, non solo della sofferenza ma anche della gioia.
Infatti le sculture che ritraggono le due giovinette posizionate una da un lato e l'altra dall'altro della sala riflettono proprio questa dicotomia: la prima è una giovane donna gioiosa, sensuale, che sprigiona una femminilità libera da pudori e l'altra invece raccolta su se stessa, disperata, gemente. L'idea di posizionarle un questo modo è stata di Luca Brusotto. Ho da subito condiviso e apprezzato moltissimo questa contrapposizione nell'esposizione. Che si riflette e si amplifica tra le opere esposte nella vetrina centrale, che non sono ordinate cronologicamente (peraltro una missione impossibile poiché per la maggior parte delle sculture mio padre non incise la data) ma secondo un gusto etico ed estetico di contrasto, in antitesi fra loro.
In queste opere ritroviamo anche lei?
Si eccomi qui (indicando i pilastrini ove poggiano teste ad alto rilievo ) ero molto giovane e avevo i capelli mossi naturali. Mia sorella Tiziana è stata un modello di ispirazione per molte sculture, così come mia madre e mia nonna.
Mentre parliamo Barbara traffica con il cellulare: mostra le molte immagini di suo padre che conserva fra le fotografie. Le scorre, si sofferma, ritorna a quella precedente. E' raggiante, seppur con gli occhi velati. Eccolo il Maestro Tricerri, giovanissimo, con lo sguardo ridente e un poco scanzonato, con il piglio da divo di Hollywood. E poi, fra quelle più recenti, l'immagine “classica”, quella della locandina della mostra del 1986: con cravatta, giacca e panciotto, cappello portato leggermente sbieco e avvolto nell'aura di bohémien raffinato.
Portava con sé valori di credibilità, esperienza, eccellenza, gentilezza e rigore al tempo stesso. Valori che scaturivano da una vita vissuta nelle sue molteplici sfaccettature, dolorose e lievi.
Guglielmo Tricerri l'ha trasformata in scultura, plasmandola con le sue mani.



















