Tocca ai testi della difesa di Gianluca Mascarino raccontare la vita all'interno delle strutture di accoglienza per richiedenti asilo gestite dalla cooperativa Obiettivo onlus tra il 2014 e il 2016. E la rappresentazione che viene offerta alla corte delle strutture di Vercelli, Albano, Saluggia, Palazzolo e Cigliano è molto differente da quella tratteggiata nelle prime udienze da volontari e da alcuni dei richiedenti asilo che erano stati sentiti nei mesi scorsi.
E' stata integralmente dedicata al “filone migranti” l'udienza di giovedì del processo che vede tra gli imputati l'ex prefetto Salvatore Malfi, tre dirigenti e funzionari della Prefettura e Gianluca Mascarino, presidente della cooperativa Obiettivo onlus. La sua società, secondo l'accusa, sarebbe stata agevolata nei bandi di assegnazione dei richiedenti asilo ma non avrebbe però poi ottemperato alle prescrizioni dei capitolati di gara in termini di servizi effettivamente erogati.
Chiamati a deporre dall'avvocato Andrea Corsaro, che difende Mascarino, i testi hanno offerto una prospettiva radicalmente opposta a quella contestata. Un'infermiera, ai tempi coordinatrice sanitaria per i centri di accoglienza della Obiettivo onlus ha ricostruito difficoltà e strategie adottate all'interno dei Cas sia dal punto di vista sanitario che, più in generale, educativo e di convivenza sociale.
«Mi occupavo personalmente dei casi medici più gravi che, ogni tanto si presentavano – ha spiegato -. Avevo costruito una rete con i medici ospedalieri e dell'Isi, il centro di assistenza per stranieri e, per chi otteneva documenti e codice fiscale, cercavo un medico di base. Ogni Cas aveva la sua dotazione di farmaci da banco che veniva gestita dal personale in servizio nella struttura stessa sulla base delle richieste dei migranti e quando c'erano casi più seri si faceva ricorso ai medici o all'ospedale». Secondo la donna, che aveva svolto anche il ruolo di coordinamento sanitario per i Cas di Obiettivo, i problemi maggiori nei centri erano legati alla tipologia di cibo che veniva servito: «I ragazzi non volevano mangiare pasta, né formaggio che avesse forma rotonda e nemmeno certi tipi di carne. Ad Albano avevamo affiancato un richiedente asilo al cuoco che forniva i pasti alla struttura per andare incontro alle loro abitudini. Abbiamo cercato una mediazione che tenesse conto però delle regole di igiene e nutrizionali che dovevamo seguire».
Problemi analoghi anche per l'abbigliamento: «Noi fornivamo un kit completo a ogni ospite, ma spesso gli indumenti non erano graditi. Chiedevano scarpe e capi di abbigliamento di marca ed è capitato che buttassero via ciò che davamo loro e che si presentassero agli appuntamenti per le visite o per i documenti indossando le infradito», ha raccontato la donna. Problemi che sarebbero stati rilevati anche per i prodotti per l'igiene personale. «Spesso trovavamo sapone e bagnoschiuma nascosti sotto i letti perché non erano di loro gradimento», ha raccontato. Quanto alla decisione di coinvolgere i migranti nelle attività di pulizia, la teste ha spiegato che la decisione venne presa per responsabilizzare i ragazzi stessi. «Era fondamentale che capissero che certe regole igieniche e di comportamento andavano rispettate per il benessere di tutti – ha detto –. Coinvolgerli nelle pulizie era un modo per impegnare anche alcune ore della loro giornata e per creare una routine di comportamento che fosse loro utile anche per il futuro».
Per questo, quando venne allestita una lavanderia generale a Cigliano, utilizzata per tutti i Cas, in ogni struttura venne creata una sorta di tutor per la corretta gestione degli indumenti. «Nei sacchi che arrivavano per il lavaggio trovavamo di tutto: scarpe, indumenti femminili, oggetti che non potevano essere lavati», ha spiegato la teste.
Racconti analoghi anche dal cuoco che aveva lavorato nella mensa del Cas di Saluggia: «Cambiammo il riso Carnaroli con il paraboiled che era più simile a quello che mangiavano loro e concordai con loro l'utilizzo di spezie che come curry e paprika. E anche per le verdure presi accordi su come cucinarle perché fossero di loro gradimento», ha raccontato assicurando che non c'erano problemi di quantità di cibo servito. Racconti non dissimili anche da un operatore che prestava servizio notturno nella parrocchia di Sant'Agnese a Vercelli, da un operatore che aveva lavorato a Saluggia e Palazzolo e dall'autista che si occupava di consegnare il materiale nelle strutture e di trasportare i migranti alle visite e agli appuntamenti in Questura. «La prima volta che andai ad Albano – ha raccontato – non avevano capito che c'era stato un cambio nella cooperativa che si sarebbe occupata di loro e bloccarono me e un collega all'interno dei locali. Per uscire abbiamo chiamato i carabinieri che poi ci hanno scortati per tutta una settimana», ha detto il giovane.
Tra i testi della difesa anche un ragazzo del Mali, arrivato nel vercellese nel 2014 e che, all'interno del Cas di Saluggia, aveva assunto un po' il ruolo di interprete vista la sua conoscenza di diverse lingue dell'Africa centrale. Per lui l'inserimento nel Cas si è rivelato fondamentale, dal momento che proprio grazie a quell'esperienza, è poi riuscito a inserirsi nel tessuto sociale locale, trovando lavoro nella Obiettivo onlus stessa.













