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Arte e Cultura | 21 gennaio 2024, 09:21

Duccio Ravera e la storia del Jazz Club di Vercelli

«Come sede usavamo una sala sotterranea nei locali del Cinema Astra, dove facevano riunioni soprattutto per ascoltare i dischi».

Duccio Ravera

Duccio Ravera

Duccio Ravera, ultraottantenne in splendida forma a Vercelli è noto a tutti come farmacista, ora in pensione, ma per decenni titolare dell’omonima secentesca Farmacia sul corso Libertà, dove dispensava consigli a tutti, con una particolare predilezione per l’omeopatia, di cui può considerarsi un pioniere in Italia e un esperto serissimo. Ravera, uomo di cultura, frequentatore di cineforum sin da giovane, amante della letteratura classica e dell’arte incisoria rinascimentale, andrebbe celebrato soprattutto quale fondatore del primo Jazz Club vercellese, grazie a un entusiasmo che addirittura “risale come egli stesso afferma - agli anni tra il 1949 e il 1950, ai tempi del Ginnasio e poi del Liceo. Mike Bongiorno, che allora teneva una rubrica sul jazz alla radio e da lui ho sentito parlare per la prima volta di bebop. All’epoca i rari appassionati di jazz erano divisi in due fazioni i tradizionalisti (che ascoltavano i generi hot, dixieland e swing) e i modernisti (affascinati dalla musica introdotta da Charlie Parker e Dizzy Gillespie). Poi io e altri decidemmo di fondare un Jazz Club a Vercelli nel 1953: come sede usavamo una sala sotterranea nei locali del Cinema Astra, dove facevano riunioni soprattutto per ascoltare i dischi e dove partecipavano semplici appassionati e anche giovani futuri jazzisti come i fratelli Memo e Angelo Cattaneo e poi altri due fratelli: Sergio e Renzo Rigon (entrambi sassofonisti ed estasiati dall’ascolto dei dischi di Lee Konitz)”.

 

Spesso Ravera e il gruppo dei giovani soci fondatori si recavano a Milano o a Torino ad ascoltare grandi concerti, accompagnati sulla sua Topolino, dl professor Nino Marinone, allora insegnante di Greco e Latino al Liceo Classico, in seguito un illustre docente universitario: per tutti loro era un grande motivo di orgoglio avere ‘in compagnia’ un personaggio importante come lui che era pure un appassionato di jazz: I soci fondatori – prosegue Ravera - eravamo io e Giuse Bianzino, clarinettista, forse il primo jazzman vercellese in assoluto a registrare un disco jazz, però a Pavia con una formazione lombarda chiamata. Poi altri due, Pier Mario Vallaro, futuro avvocato, ottimo disegnatore, che disegnò il manifesto del Club, con le rane musiciste, quindi Edo Roy in seguito imprenditore di successo. Ma c’era pure un quinto personaggio, pure lui giovanissimo, che a Vercelli pochi ricordano, perché si trasferì quasi subito a Milano, diventando una figura notissima nell’ambito dell’estrema destra: Toni Staiti”.

 

Si tratta proprio di Tomaso Staiti di Cuddia delle Chiuse, detto “il barone nero”: “Sì, lui, nato appunto nel 1932 a Vercelli e morto a Milano sei anni fa [2017]. Vero dandy, sempre elegantissimo, persino Susanna Agnelli restò impressionata dalla sua eleganza: fu parlamentare del Movimento Sociale tra il 1979 e il 1992. Celebre perché riteneva Giorgio Almirante troppo tiepido, Toni era amabile conversatore con Giovanni Agnelli sul tema Juventus, ma assurse ai fasti della cronaca per una forte inimicizia con il democristiano Giovanni (a sua tempo Presidente del Consiglio) al quale il 20 luglio 1989 molla due schiaffoni nel Transatlantico di Montecitorio, apostrofandolo come ‘bancarottiere, peculatore, falsario, massone, verme’”.

 

Ravera & Company all’epoca si cercavano anche di fare jazz, imparandolo a memoria con il ripetere le note dei dischi sui loro strumenti, ma l’unico che sapeva suonare in modo passabile il clarinetto era non a caso il Bianzino, il quale sapeva anche leggere gli spartiti, mentre Vallaro suonicchiava il pianoforte grazie un orecchio eccezionale; e a Ravera veniva affidavata la batteria, che era poi un tamburello; per fortuna di lì a poco trovarono Giorgio Nascimbene che era molto bravo alla chitarra.

 

Grazie a Ravera si tentò pure l’attività concertistica: “Organizzammo un recital pochi giorni dopo la fondazione del Jazz Club, al Salone Dugentesco di Vercelli, che già ospitava eventi musicali come il Concorso Viotti: chiamammo la Milan College Jazz Society, tra i massimi esponenti del dixieland revival italiano”. Poi, per farsi conoscere mwelghio anche fuori Vercelli, il Jazz Club avrebbe voluto il Basso Valdambrini Sextet che allora rappresentava il top del jazz moderno in Italia e forse anche in Europa: “Ma Gianni Basso, Oscar Valdambrini e Rodolfo Bonetto – che avevamo contattato – avevano dei cachet insostenibili per il Jazz Club. Per fortuna potevamo contare su amici come il citato Sergio Rigon, allora giovanissimo come noi, che avrebbe poi intrapreso una bella carriera, al sax baritono e al flauto, suonando sia il traditional ad esempio con Joe Venuti nei suoi passaggi italiani sia il free all’interno di una big band di Giorgio Gaslini”.

 

A un certo punto, il Jazz Club si sciolse: “Fu a causa dell’avanzare dell’età – ricorda ancora Ravera – iniziammo a lavorare, sposarci e avere figli e quindi ad avere poco tempo; ma per tutti gli anni Cinquanta il Jazz Club ha funzionato benissimo, nel decennio successivo ognuno è andato per la propria strada. Ma ancora durante gli anni Sessanta compravamo i 33 giri tutti insieme, poi a turno ciascun o di noi li registrava. Ricordo ancora di un Chet Baker d’importazione pagato tremila lire, quando un pranzo in trattoria costava quattrocento lire”.

 

Dei membri del Jazz Club Vercelli, secondo Ravera, sono in fon do solo due a essere rimasti più vicini al jazz:Come musicista Giuse Bianzino, anche se poi ha fatto l’insegnante all’ITIS: tuttavia già all’epoca entrò in contatto con Mike Bongiorno e con il musicologo e compositore Livio Cerri che abitava a Pavia, dove faceva il dentista; Cerri scrisse le note di copertina per l’album omonimo della Blue River’s Jazz Band (1958) una formazione tutta pavese dove lui era l’unico di Vercelli. E quale collezionista di dischi direi Pier Benedetto Francese, il quale, grazie alla sua professione di ambasciatore, è riuscito a raccogliere in giro per il mondo circa ventimila vinili: ogni volta che vado a trovarlo resto stupefatto da tanta ricchezza musicale!”.

Guido Michelone

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