Ci sono tanti piccoli-grandi mondi nel mondo di Giorgio Lobascio: basket e minibasket, la chitarra, la montagna. E il tiro con l’arco, anche. Senza dimenticare che fino a due anni fa insegnava: maestro di sostegno per quarant’anni nelle scuole vercellesi.
Barba, l’orecchino, un abbigliamento casual che più casual non si può.
Lui comunque non ci sente: a sessant’anni suonati è il ragazzo di sempre.
Con un grande pregio.
Giorgio, tanto nel mondo della scuola quanto nel mondo del basket dicono che tu hai sempre avuto una predilezione per gli ultimi: i ragazzi più poveri, magari più grassi, magari emarginati.
«È un gran bel complimento, ma penso che sia la verità».
Basket, chitarra e montagna: da dove cominciamo?
«Dalla chitarra: non ho più un gruppo ma continuo a suonarla. Sono lontani i tempi… fammici pensare: trent’anni? Trent’anni fa mi piaceva suonare nei locali, della provincia, o da solo o con un amico. Ora suono se capita: per gli amici, oppure in qualche manifestazione».
La passione per il basket: quando nasce?
«Quarant’anni fa, all’oratorio della Maddalene. Accadde tutto in pochi mesi. Fu presa la decisione di allestire una squadra, io di basket sapevo poco, avevo giocato come tanti al Concordia, ma ebbi la fortuna di incontrare un signor allenatore, si chiamava Celoria, che mi fece un corso intensivo. Cominciai ad allenare e, anche, a seguire i corsi per diventare istruttore e allenatore.»
Poi ci fu la stagione vissuta come alla scuola elementare Carducci, dove insegnavi. Una scuola di periferia, non lontana dal campo nomadi...
«Ma si poteva giocare a basket, così sfruttai l’occasione, grazie a un progetto finanziato dalla scuola. Mi venne un’idea, che poi fu anche l’idea di partenza che vide la nascita dei Mooskins: volevo che insieme agli altri giocassero anche quelli senza soldi, con problemi, magari pigri. La sfida era quella di convincerli a giocare e poi farli giocare, iniettargli insomma la passione per la palla a spicchi. Era bello, poi, vedere giocare insieme il figlio dell'avvocato con l'immigrato, che doveva ambientarsi. Fu alla fine che cominciai a rapportarmi e collaborare con i Bugs...»
Un rapporto che dura ancora, con Luca Colombi, che dei Bugs è una colonna portante.
«Assolutamente, è un piacere lavorare con lui...»
Così come lavorasti bene con Adriana Coralluzzo.
«Ho un gran bel ricordo dell’annata in cui collaborai con Adriana, i 2010 ci diedero tanti soddisfazioni. Adriana è tosta, ha voglia di imparare e sa insegnare a giocare a basket.»
Meglio allenare i piccoli, oppure gli adulti? Pochi anni fa sei stato coach dei Mooskins, giusto?
«Con gli adulti si va bene se c’è lo spirito di gruppo, altrimenti sono grane. Allenare i piccoli diciamo che è il mio pane… però vedi...»
Dimmi.
«La più grande soddisfazione sai qual è? Allenarli e poi vederli che sono pronti a scendere in campo, e che hanno voglia di dare il massimo».
Non ami parlare troppo di te e del basket, ma raccontami la più grande soddisfazione che hai vissuto da allenatore.
«Con la squadra della Veloces, allenavo i nati nel 1969 e nel 1970, che allora erano Under 13 ed Esordienti, ed io ero inesperto, tanto inesperto. Eppure per due anni vincemmo tutto, tranne la finale contro l’Ignis Varese. Fummo sconfitti sia in casa, ma il Pala Piacco era gremito di pubblico, sia in trasferta, ma entrare sulla palestra dell’Ignis Varese fu un’emozione grandissima… fu come entrare a San Pietro».
Basket, montagna e chitarra: abbiamo dimenticato il tiro con l’arco, disciplina che insegni. Passione nata quando?
«Non ricordo quando, ricordo dove: in un Camp in Cadore con Dino Meneghin. Il tiro con l’arco era una disciplina collaterale. Successe che me ne innamorai che che poi cominciai a insegnarlo.»
Dino Meneghin: non capita a tutti di conoscere uno che ha fatto la storia della pallacanestri italiana.
«L’ho conosciuto ai Camp, prima in Valsesia poi in Cadore. Lo contraddistingue l’umiltà dei grandi. Pensa che un giorno, ero a casa sua, suo padre mi fece vedere una balalaika acquistata in Russia. Mi disse che era da restaurare. Posso provarci io, dissi. E lui: Allora te la regalo. E infatti è un regalo: prezioso.»
Torniamo alla chitarra. Il brano che ami di più?
«Senza dubbio Crêuza de mä di Fabrizio De Andrè. Mi incantai appena la ascoltai la prima volta. Era il momento in cui imperversava l’elettrico. Ascoltare un brano con strumenti acustici e in genovese fu come respirare aria buona in alta montagna. E so di altra gente che, come me, se ne è innamorata al punto di riascoltarla e di suonarla.»
Appena puoi fuggi in montagna. Meglio vivere in montagna o a Vercelli?
«In montagna è bello quando ci sono gli amici, si fa una grigliata, si suona e si canta...»
E Vercelli?
«Per allenare i ragazzi e i ragazzini».