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Sport | 29 giugno 2022, 20:11

Allenare, giocare e poi ancora allenare ma sempre con passione: insomma Adriana Coralluzzo

Il giorno in cui, al Palapiacco, arrivarono a tifare per lei i ragazzi che allenava. «E pensare che da piccola dissi a mio padre che non volevo giocare più a basket».

Adriana Coralluzzo, giocatrice della Pallacanestro Vercelli e allenatrice (mini basket, esordienti Bugs, Under 19 PFV)

Adriana Coralluzzo, giocatrice della Pallacanestro Vercelli e allenatrice (mini basket, esordienti Bugs, Under 19 PFV)

È storia recente, della scorse settimane. Al Palapiacco, la Pallacanestro Femminile Vercelli affronta un'avversaria di tutto rispetto. C'è qualcosa di diverso sugli spalti, nei momenti che precedono la gara: un gruppo di ragazzi, sui dodici anni, mai visti prima. Sono lì per tifare la PFV perché nella PFV gioca la loro allenatrice, Adriana Coralluzzo.

«Non me l'aspettavo, mi sono venuti i brividi quando li ho visti» dice lei.

Adriana Coralluzzo, classe 1989, giocatrice e allenatrice di basket. Dopo il lavoro, basket a oltranza Gioca e allena, allena e gioca. Ogni tanto si concede una serata con le amiche. Eppure un giorno – era piccola, aveva iniziato da poco – aveva detto a suo padre: «Basta, non voglio più giocare a basket. Non riesco mai a fare canestro».

«”Adri” tu non ti preoccupare. Tu segui quello che dice l'istruttrice, il canestro poi arriverà».

Diede ascolto a suo padre. Che aveva ragione. I canestri sarebbero arrivati.

Dopo aver militato in diverse squadre della penisola (anche in B e A2) nel 2017 approda a Vercelli e quindi alla Pallacanestro Femminile Vercelli.

Ora gioca e, appunto, allena. Giorni-fotocopia: ad allenare i piccoli del minibasket («Meritano attenzioni particolari, meritano grandi attenzioni», dice), gli esordienti dei Bugs (un'annata trionfale, la loro), le Under 19 della PFV e poi allenamenti e partite con la prima squadra allenata da Gabriele Bendazzi.

Non ti viene mai la voglia di staccare?

«No. Adesso sto pensando al corso che farò per diventare Istruttore giovanile. Spero di passare l'esame. Il basket è la mia vita, ormai».

Dove nasce questa passione?

«Da... una non passione. Quando ero piccola, dal momento che ero un po' in carne, mi facevano fare ogni sport immaginabile: judo, oppure nuoto. Anche la danza. Niente, io dopo una settimana mollavo tutto. Poi è venuta la pallacanestro. Volevo smettere, non mi sentivo all'altezza, soprattutto dal punto di vista fisico, e poi giocavo solo con dei maschi, che un po' mi bullizzavano. Mio padre però ha insistito, così a dodici anni sono andata in una squadra femminile e da lì, complici le relazioni con le compagne di squadra, è scoppiata la passione.»

Hai girato l'Italia, come giocatrice, il ricordo più bello?

«A Livorno, giocavamo in serie B e disputammo i play off per l'A2, avevo 18 anni ed ero piuttosto... imbranata. Quando facevo la spesa comperavo solo cose inutili. Poi, giorno dopo giorno, sono cresciuta: ho imparato a fare la lavatrice, a cucinare (avevo imparato da mia madre senza accorgermene, addirittura ripetevo i suoi stessi gesti nel preparare). E poi il gruppo che si era creato con le ragazze che giocavano con me nel Livorno era magico. Vivevamo nello stesso stabile, insieme mangiavamo e insieme andavamo ad allenarci.Un anno, insomma, indimenticabile e fondamentale per la mia crescita, perché imparai a cavarmela da sola».

Anni dopo, arrivi a Vercelli, giochi nella PFV e un giorno decidi che da grande vuoi fare l'allenatrice.

«Sì, la decisione la presi qui, a Vercelli, Ma fu una decisione sofferta, lenta. La mia timidezza, le mie insicurezze mi facevano tergiversare. Poi ho preso coraggio, e ho cominciato a seguire i primi corsi».

La Pallacanestro Femminile Vercelli, sei un punto fermo da anni. E quest'anno avete comunque disputato un gran bel campionato.

«La mia squadra è una spinta emotiva molto importante e trasversale per tutto quello che faccio! Traggo ispirazione dalle giocate delle mie compagne e loro per me sono come una famiglia; nei momenti di difficoltà, infatti, ci uniamo e sappiamo di avere le spalle coperte perché insieme affrontiamo vittorie e sconfitte. Quest'anno abbiamo vinto la Coppa Piemonte, primo trofeo dopo un ciclo di lavoro, ed è stata una grande soddisfazione, ma sono sicura che ne verranno altre».

Quando giochi dai tutto, quando alleni pure. Sempre calma, sempre sorridente. Perdi mai la pazienza?

«Bella domanda» dice (ridendo). Poi: «La pazienza adesso non la perdo mai, non voglio perderla, ma in passato ero una testa calda. Un giorno però capii che perdere il controllo non mi portava da nessuna parte, e quindi ho cominciato a fare un lavoro su me stessa. E da quando sono qui, a Vercelli, ho mutato approccio, sia con il basket che con la vita. Quando alleno cerco di tenere fede a questo mio modo nuovo di vivere.»

Con i Bugs, dieci partite dieci vittorie. Con l'Under 19 non è andata così bene.

«Già, abbiamo perso sempre. Ma se guardiamo le prestazioni io dico che possiamo essere soddisfatti. La squadra, partita dopo partita, è cresciuta tantissimo, al punto che nell'ultima partita, contro una squadra che ci aveva dato 30 punti, abbiamo rischiato di vincere. Le ragazze hanno sentito, capito, che stavano migliorando: e a me interessava soprattutto questo.»

Torniamo ai “tuoi” Bugs che – a sorpresa - sono venuti a tifare per te, quella partita e poi altre.

«Vuol dire che hanno apprezzato il cammino che abbiamo fatto insieme. Ho passato tutto l'anno con loro a sudare, a vederli crescere, lavorando sugli errori. Quando li ho visti, dopo un primo momento di forte emozione, mi hanno trasmesso forza, e anche le mie compagne della PFV sono rimaste molto colpite».

Ora dico alcuni nomi, e tu mi dici cosa pensi di loro.

Mauro Bordi (da cui hai ereditato i Bugs).

«È un uomo speciale. Presta attenzione alle parole che usa con tutti: con i ragazzi che allena, con le persone che incontra. Quando parli con lui sai che non stai conversando, sai che hai di fronte a te qualcuno che ascolta, ed è una cosa rara. Ha una grande sensibilità, per questo mi sento affine a lui.»

Giorgio Lobascio (il tuo secondo con i Bugs).

«”Giorgino” è un'istituzione. Ha un'esperienza immensa, che in parte gli deriva dagli anni trascorsi a scuola, come maestro. Siamo legati, soprattutto da quest'anno, in cui abbiamo lavorato insieme, ma lo stimavo da prima: per lui, prima di tutto, viene l'aspetto educativo, la pallacanestro come strumento di educazione alla vita. Condividiamo questa filosofia, ed è anche per questo che tra noi c'è un'ottima intesa».

Antonio Galdi, tecnico dei Rices.

«Una persona che sa tantissimo di pallacanestro e a cui devo tanto. Galdi è il mio mentore. Fra pochi giorni frequenterò un corso per allenare squadre giovanili d'eccelleza, ma i corsi seguiti in precedenza li ho fatti con lui: tutto quello che so, l'ho appreso da lui e per lui, quindi, nutro rispetto, ammirazione, e riconoscenza.»

Altri, nomi, invece, che vengono in mente a te?

«Stefano Gherzi e Luca Colombi (detto Bumbus). Sono anni che, con dedizione e senza badare a orari, portano avanti il progetto dei Bugs, dando la possibilità a centinaia di bambini di avvicinarsi al basket. Sono stati loro che mi hanno voluto ai Bugs e con loro ho un rapporto speciale, prima umano. Voglio bene a entrambie con entrambi spero di lavorare ancora.

«Poi, passando al pianeta PFV, devo tantissimo a Roberto Cavallaro e al presidente Claudio Roselli. Mi hanno voluta come giocatrice, mi hanno incoraggiata ad allenare. Voglio citare una mia carissima amica, Valentina Balocco, che per anni è stata il capitano della PFV. Con lei condivido la passione di educatrice, che nel minibasket è fondamentale. Prima si è educatori e poi istruttori: e lei, su questo punto, mi ha insegnato tantissimo. Chiudo con il mio allenatore, Gabriele Bendazzi, che non è solo un bravo allenatore: trasmette passione, umanità. E poi è responsabile dei miei ultimi anni di attività, dal momento che, in un modo o nell'altro, mi ha convinto a non smettere di giocare».

Cosa sogna Adriana Coralluzzo?

«A luglio, sogno di passare l'esame da istruttrice, per il futuro sogno di allenare magari nella A1 femminile. Oddio, fosse maschile non mi tirerei indietro».

Remo Bassini

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